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William Caruso: dall’Edipo di Carsen all’Iliade di Peparini.

Roberta D'Asta
Last updated: Giugno 28, 2025 11:00 am
Roberta D'Asta
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8 Min Read

Nell’ora in cui la luce si sbriciola sull’arenaria del Teatro Greco di Siracusa e il vento dello Jonio gira tra le gradinate come un antico cantastorie, il pubblico assiste al congedo di un uomo che fu re, errante, cieco e finalmente consapevole: Edipo, nell’ultimo approdo della sua odissea. A guidare l’addio è Robert Carsen, maestro del dettaglio che toglie, fino a scavare l’essenza. Tra i molti volti che compongono il coro di questa elegia scarna, spicca quello di William Caruso, ventinovenne messinese cresciuto tra le pieghe di un teatro che ancora profuma di sale e carrubi. Il giovane attore entra con passo cauto, quasi temesse di incrinare il silenzio sacro del bosco di Colono; sostiene tra le mani una brocca d’acqua e, con la semplicità disarmante di chi custodisce un rito quotidiano, benedice il suolo. È il primo a interpellare il pellegrino disperato, eppure la sua battuta sembra una goccia che, cadendo, mette in moto cerchi concentrici destinati a dilatarsi fino all’ultima nota dello spettacolo.

Carsen, fedele alla poetica del “meno è più”, ha domandato agli interpreti un’ascetica spoliazione di ogni gesto superfluo. Il messinese si è trovato, come gli altri, a disimparare il repertorio scolastico della tragedia – quel registro enfatico che, nel suono cavo di certi teatri, rischia di diventare involontariamente museale – per avvicinarsi a un minimalismo intimo, respirato, quasi prosciugato. L’abitante di Colono che Caruso incarna è un paesano onesto, ignaro della risonanza cosmica di ciò che sta per accadere, ma totalmente devoto alla sacralità del luogo. La sua dizione, intrisa di un filo di cadenza meridionale appena velato, offre al personaggio un’umiltà nobile: ne fa ponte tra il mondo degli dei – irraggiungibile – e quello degli uomini che ancora coltivano un senso di pietà per la terra che calpestano.

Ogni sera, nel buio morbidamente interrotto dall’arancio delle fiaccole, quel piccolo atto di custodia si imprime nella memoria degli spettatori come un sigillo: basta un saluto, un’invocazione, e il teatro intero sembra accordarsi su una frequenza ancestrale, ricordando di essere nato proprio così, tra polvere e stelle, molto prima che diventasse sinonimo di palcoscenico illuminato. Edipo, interpretato con febbre controllata da Giuseppe Sartori, trova nella voce di Caruso la prima soglia di una comunità che lo teme e lo compatisce: l’avvertimento del giovane abitante dà il la a un fitto crepitare di domande etiche – sulla colpa, sul destino, sulla dignità dell’anzianità – che Carsen orchestra come un canto sommesso.

La prova siracusana si chiude oggi, ma il percorso del giovane siciliano non si arresta: anzi, sembra dispiegarsi con quel vigore che solo le carriere appena schiuse possiedono. Dal 4 al 6 luglio, Caruso tornerà sulla stessa pietra millenaria vestendo attributi ben più ingombranti: quelli di Zeus, padre degli dei, nel kolossal corale “Iliade” firmato da Giuliano Peparini. Passare dall’umile guardiano di un bosco proibito al signore dell’Olimpo potrebbe apparire un salto arduo, eppure l’attore lo affronta con naturalezza, forte di un fisico duttile e di un timbro capace di mutare dal bisbiglio confidato alla potenza oracolare. Chi lo ha seguito fin dagli esordi nei laboratori del Teatro Vittorio Emanuele di Messina ricorda la stessa attitudine camaleontica: un ragazzo capace di attraversare Shakespeare e Ritsos nel giro di un sussurro, mantenendo intatta la luminosità dello sguardo.

Peparini, coreografo e regista abituato a fondere linguaggi, ha immaginato la sua “Iliade” come un affresco cinetico che alterna corpi in volo e fotografie rallentate di ferocia. A Caruso spetterà l’arduo compito di incarnare la legge che governa quegli opposti: dovrà reggere il peso del fulmine, pur conservando la fragilità che, sotto la corazza, accomuna tutte le figure divine alle loro creature. In prova, raccontano, il giovane indaga il personaggio partendo dal respiro, come a voler sentire nelle viscere il boato della tempesta prima ancora che nella voce. È un metodo di lavoro che trae linfa proprio dal percorso recente con Carsen: sottrarre, asciugare, rivelare. La divinità, se mostrata con troppa prosopopea, smette di inquietare; se, invece, vibra di motivazioni umane, può diventare specchio inquietante dei nostri stessi conflitti.

L’estate al Teatro Greco proseguirà con un ulteriore tassello del mosaico che William Caruso va componendo: il 17 luglio sarà tra i protagonisti di “Na nuttata ri passioni”, sempre per la regia di Peparini, prova in cui il dialetto siciliano farà da tessuto melodico alle tensioni contemporanee di un racconto in bilico tra mito popolare, denuncia sociale e partitura coreografica. L’attore si misura così con tre registri diversi nel giro di poche settimane: il tragico classico declinato al minimalismo, l’epica guerriera rivisitata in chiave spettacolare e il canto identitario che risale dalle profondità linguistiche dell’isola. Un crogiuolo formativo prezioso, che somiglia a un corso accelerato sulle infinite maschere dell’essere.

Parlando con i giornalisti, Caruso riconosce quanto questi passaggi impongano un esercizio continuo di umiltà: «Mettersi al servizio di un testo antico significa fare spazio, lasciare che le parole respirino nel corpo», confessa. «Carsen ci ha insegnato il coraggio di svuotare le tasche, di tenerci lontani dai lombi sicuri di una recitazione tutta fiato e muscoli. Peparini mi chiede di occupare invece lo spazio, di cavalcarlo fisicamente, ma sempre partendo da quella stessa essenzialità che ho imparato a riconoscere». Il suo sguardo, mentre parla, tradisce la freschezza di chi non teme la fatica e, anzi, la rincorre come un atleta curioso di misurare la propria resistenza.

Intanto il pubblico lo osserva crescere a vista d’occhio, quasi fosse un germoglio impaziente in un giardino che nessuno aveva notato. Dapprima spettatore stupito di fronte a un Edipo che, nel declino, trova la grazia di una morte riconciliata, ora si prepara a seguire un Zeus in perenne conflitto con il proprio potere e, poco dopo, un testimone della passione più carnale della sua terra. Che sia un abitante ingenuo, un dio iracondo o un giovane siciliano scosso dai mali moderni, William Caruso rimane, in fondo, la stessa cosa: un tramite. L’attore come sacerdote laico, capace di tradurre per noi l’enigma della condizione umana con la sola materia di cui dispone – la voce, il gesto, un punto di luce che lo isola dal buio – e di restituirci, in cambio, l’ebbrezza antica di riconoscerci sulla scena.

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