Nel panorama teatrale italiano del 2025, poche opere hanno saputo unire con tanta forza narrazione storica e tensione drammatica quanto L’ultima estate, il nuovo spettacolo scritto e interpretato da Marco Paolini, in scena al Piccolo Teatro di Milano. Con il suo inconfondibile stile, che intreccia racconto, riflessione politica e indagine emotiva, Paolini ci trasporta nell’Italia degli anni ‘70, portando sul palco uno dei momenti più dolorosi e controversi della storia repubblicana: il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro.
L’opera, accolta con grande entusiasmo da pubblico e critica, non si limita a ricostruire gli eventi di quei fatidici 55 giorni, ma si propone come un’indagine collettiva sulle scelte morali e politiche di un Paese che, in quel momento, si trovò diviso tra fermezza e trattativa, tra giustizia e compromesso, tra ideali e realismo. È teatro civile nella sua forma più alta, un’opera che non cerca facili emozioni ma pone domande difficili, lasciando lo spettatore in bilico tra passato e presente.
Un testo che unisce indagine storica e tensione drammatica
L’ultima estate è una riflessione a più voci sulla figura di Aldo Moro e sulla rete di eventi e personaggi che si intrecciarono attorno alla sua prigionia. Il testo si basa su un’accurata ricerca storica, attingendo a documenti, lettere, dichiarazioni ufficiali e testimonianze dell’epoca, ma ciò che colpisce maggiormente è la capacità di Paolini di restituire il senso di un’attesa drammatica e di un destino che sembra scritto e, al tempo stesso, evitabile.
Lo spettacolo si muove su due livelli narrativi: da un lato, la ricostruzione degli eventi, narrati con precisione quasi documentaristica; dall’altro, una dimensione più intima e umana, che cerca di immaginare i pensieri, le emozioni, i dilemmi di chi si trovò coinvolto in quella vicenda. Aldo Moro non è solo la vittima sacrificale di un’epoca di ferro e fuoco, ma un uomo alle prese con la propria fede, con il proprio senso di responsabilità e con il dubbio sul futuro del Paese.
Paolini, che ha sempre fatto della narrazione il suo strumento espressivo più potente, qui adotta una struttura ibrida tra monologo e dialoghi corali. La sua voce guida il racconto, ma i personaggi che si muovono attorno a Moro – i brigatisti, i politici, la moglie Eleonora – emergono con forza, ciascuno portatore di un punto di vista, di una verità parziale, di una domanda senza risposta.
Una messa in scena essenziale e simbolica
La regia, firmata dallo stesso Paolini insieme a Gabriele Vacis, è costruita su una scenografia minimale, che lascia spazio alle parole e alla fisicità degli attori. Il palco è un ambiente spoglio, dominato da un grande tavolo, simbolo del luogo delle trattative mai avvenute e della distanza tra le parti in gioco.
Le luci giocano un ruolo fondamentale: l’uso di chiaroscuri netti crea un’atmosfera tesa, in cui i personaggi sembrano emergere dal buio della storia, mentre le proiezioni di documenti e fotografie d’epoca aggiungono un ulteriore livello di coinvolgimento visivo ed emotivo. La musica, discreta ma incisiva, accompagna i momenti chiave con sonorità che richiamano il clima dell’epoca, sottolineando il senso di oppressione e di urgenza che pervade l’intera opera.
Interpretazioni intense e coinvolgenti
Oltre a Marco Paolini, che si conferma un narratore straordinario capace di incarnare diversi ruoli con una naturalezza impressionante, il cast è composto da attori di grande talento.
Federica Fracassi offre un’interpretazione struggente nei panni di Eleonora Moro, restituendo tutta la dignità e il dolore della moglie dello statista, divisa tra la speranza e la consapevolezza della solitudine del marito. Paolo Pierobon, nel ruolo di uno dei brigatisti, porta in scena una complessa miscela di fanatismo ideologico e inquietudine, rendendo evidente la contraddizione interna di chi crede di combattere per un mondo migliore ma si ritrova a compiere atti inaccettabili.
Ma è forse la figura di Aldo Moro, evocata attraverso le sue lettere e le testimonianze di chi gli fu vicino, a colpire più di ogni altra. Non vediamo mai un attore interpretarlo direttamente: la sua presenza è affidata alle parole, alle immagini, agli sguardi dei personaggi che ne parlano. È un’assenza che pesa come una presenza, un vuoto che riempie la scena e che lascia nello spettatore un senso di impotenza e di inquietudine.
Un’opera che scuote e interroga
Ciò che rende L’ultima estate uno degli spettacoli più importanti del 2025 è la sua capacità di parlare al presente attraverso la memoria del passato. Il sequestro di Moro non è solo un evento storico, ma un paradigma di tutte le scelte difficili, di tutte le crisi in cui la politica e la società si trovano a dover prendere posizione senza poter contare su risposte certe.
La domanda sottesa a tutto lo spettacolo è: cosa avremmo fatto noi? Saremmo stati tra coloro che chiedevano di trattare o tra quelli che sostenevano la fermezza dello Stato? Avremmo avuto il coraggio di rischiare per salvare una vita o ci saremmo rifugiati dietro il principio dell’intransigenza?
Il successo dello spettacolo è testimoniato dalle standing ovation che accompagnano ogni replica e dal dibattito che ha generato tra il pubblico e la critica. Non è solo teatro, è un atto di riflessione collettiva, un’opportunità per fare i conti con la nostra storia e con il modo in cui, oggi, affrontiamo le nostre sfide sociali e politiche.
Con L’ultima estate, Marco Paolini conferma ancora una volta il suo ruolo di maestro del teatro civile, capace di trasformare il palcoscenico in un’arena di confronto e di conoscenza. Uno spettacolo necessario, che lascia il pubblico con più domande di quante ne avesse all’inizio – ed è proprio questo il suo merito più grande.