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Musica

La notte in cui l’Efebo respirò la Sinfonia del Nuovo Mondo

Roberta D'Asta
Last updated: Giugno 28, 2025 9:47 am
Roberta D'Asta
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6 Min Read

C’è stato un istante, sotto il cielo chiazzato di scirocco della Valle dei Templi, in cui il silenzio di oltre settecento persone è parso più potente di qualunque fanfara: nessuno schermo acceso, nessuna tosse fuori tempo, solo il fruscìo dell’aria calda che passava tra i gradoni antichi del Teatro dell’Efebo e la luce ambrata che, al calare del sole, teneva sospese le colonne come cembali d’ombra. Così Agrigento, neo-Capitale Italiana della Cultura, ha accolto il dono dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, venuta a intrecciare pietra e fiato umano in un concerto gratuito che, di gratuito, aveva solo il prezzo del biglietto: l’emozione, infatti, costava il coraggio di ascoltare.

Srba Dinič, slanciato sul podio come un timoniere pronto a forzare la rotta, ha spezzato l’immobilità con l’Ouverture festiva di Šostakovič; le trombe hanno innalzato bandiere di metallo contro l’ultima luce, i timpani hanno marchiato il ventre della cava con un rullo d’oracolo, e la platea ha capito subito che non si trattava di un semplice omaggio all’occasione, ma di un invito a respirare a pieni polmoni una stagione nuova. È facile, in questi tempi distratti, chiamare “ripartenza” ogni passo appena più lungo: quella sera la parola ha trovato un corpo, un palpito condiviso che s’allargava dalla bacchetta del direttore fino all’ultimo spettatore appollaiato sul tufo.

Quando le prime note del Capriccio italiano di Čajkovskij hanno scivolato movenze di tarantella sopra l’orchestra, il caldo ha dato una tregua, quasi volesse aprire spazio al ricordo di una Roma ottocentesca di carrozze e fontane: l’arpa pizzicava la pelle dell’aria, i violini inseguivano melodie di festa di paese, e l’intera cava sembrava un cortile familiare dove gli antenati sedevano accanto ai vivi a battere il tempo con i talloni. Qualcuno, in fondo, ha lasciato cadere un sospiro; è rimbalzato sulle pietre e si è dissolto come polvere d’incenso.

Poi la Sinfonia “Dal Nuovo Mondo”. Chi la conosce aspetta l’Andante come si attende un amico che tarda: ne avverte la presenza prima che compaia. E quando il corno inglese ha sollevato la sua frase di nostalgia, la valle ha trattenuto il fiato, le luci di servizio sembravano stelle minori inchiodate al costato della notte, e persino il vento ha indugiato sul crinale per non spostare quella musica di un millimetro. Dinič ha scelto di non indulgere nell’elegia; ha irrorato i temi con una pulsazione di viaggio, quasi volesse ricordare che i “nuovi mondi” non sono mai luoghi di quiete, ma orizzonti che pretendono il passo.

All’ultimo accordo, improvviso come un colpo di remo, il pubblico si è alzato in piedi all’unisono. Applausi lunghi, densi, senza il timore di disturbare: era la restituzione di un’offerta accolta. Margherita Rizza, commissario straordinario della Sinfonica, si è voltata verso la platea con gli occhi lucidi di chi scopre, di colpo, che l’amore per la musica può tracimare dalla burocrazia; accanto a lei, Maria Teresa Cucinotta e Giuseppe Parello, vertici di Agrigento 2025, annuivano come chi vede nella gioia altrui la conferma di un progetto che smette di essere slogan per farsi carne.

E perché la carne ha bisogno di vino, la serata è scivolata naturalmente in un secondo movimento fatto di calici e profumi. La Strada del Vino della Valle dei Templi ha versato Grillo dorato, Catarratto salmastro e un Nero d’Avola che sapeva di terra rossa e fichi secchi; mentre i musicisti mettevano a riposo gli archi, la cava si è trasformata in un refettorio laico dove la gente brindava al futuro come a una promessa mantenuta in anticipo. Tra i tavoli improvvisati, un ragazzo sui vent’anni raccontava al telefono—lì sì, il telefono era ammesso—di aver sentito la Sinfonia di Dvořák “dentro la pancia”. Vero: la nona di Dvořák non suona, vibra; e in quella vibrazione si annida l’idea stessa di Capitale della Cultura, un titolo che non serve a ornare manifesti ma a misurare il grado di ascolto di una comunità.

Quando le luci si sono spente e la cava ha riabbracciato il buio, è rimasto nell’aria un residuo di note, come un profumo che non si decide a svanire. Forse era la prova che la musica, una volta liberata, non può essere rimessa in gabbia; forse era solo il vento che, dopo aver taciuto per un’ora abbondante, tornava a reclamare il suo spazio fra le colonne. In ogni caso, più di uno spettatore ha indugiato qualche istante prima di incamminarsi verso l’uscita, quasi a volersi assicurare che l’Efebo, la statua adolescente che dà nome al teatro, ne avesse tratto lo stesso nutrimento. Perché un concerto, quando riesce, non riguarda solo chi ascolta: investe le pietre, gli ulivi, l’aria stessa. E nulla, da quel momento in poi, è più esattamente com’era.

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