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In Scena

Buonasera a tutti: Peppe Barra porta i suoi “disordinati appunti” alla GAM di Palermo

Roberta D'Asta
Last updated: Luglio 14, 2025 12:37 pm
Roberta D'Asta
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6 Min Read

Fra i pilastri ionici del chiostro settecentesco, nell’ora in cui il marmo sembra trattenere l’ultimo lume del tramonto, risuonerà la voce più cangiante e imprevedibile del teatro musicale partenopeo. Venerdì 18 luglio (con replica il 19) la stagione estiva del Teatro Biondo accoglie Peppe Barra in Buonasera a tutti – Dai miei disordinati appunti: un incontro faccia a faccia, senza filtri, tra un attore-cantore che ha attraversato oltre sessant’anni di palcoscenico e il pubblico palermitano, da sempre sensibile alle vibrazioni mediterranee. Sul pianoforte, complice discreto e brillante, siederà Luca Urciuolo, tessendo trame armoniche fra ricordi, invettive, sospiri di tamburo e improvvisi lampi di commedia dell’arte.

Nato a Procida nel 1944, cresciuto in una Napoli ancora ferita dalla guerra ma nutrita di canzoni da cortile, Peppe Barra porta inciso nel timbro − capace di farsi baritono cavernoso o falsetto infantile nel giro di un respiro − il DNA di una tradizione che non ha mai conosciuto i confini fra colto e popolare. Racconta l’infanzia trascorsa fra depositi di reti da pesca e teatrini di marionette, quando la madre Concetta, diva vernacolare dal carisma sovversivo, lo spronava a «tenere il pubblico appeso al filo della parola». Proprio quel filo Barra lo ha intrecciato, negli anni Settanta, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone: un laboratorio che restituì al dialetto la dignità di lingua scenica, fondendo villanelle seicentesche con polifonie da festa di paese, riti arborei con invenzioni d’avanguardia.

Nello spettacolo palermitano i capitoli scorrono come pagine di un quaderno consumato: c’è la Procida delle processioni pasquali, c’è il «mito Felicia» (Concetta Barra) che canta Cicerenella da un balcone di Monte di Dio, c’è la tournée mondiale di La Gatta Cenerentola dove Peppe, avvolto in pizzi neri, faceva di Pulcinella un moderno sciamano, c’è perfino il suo incontro con Fabrizio De André, folgorato dal modo in cui quella voce «sapeva piangere e ridere nello stesso intervallo di terza minore». Ogni ricordo si traduce in canzone, ogni canzone in maschera, ogni maschera in stoccata ironica: l’artista infrange la quarta parete e chiama per nome spettatori ignari, re-inventa il “cunto” napoletano con un Lembo di rap improvvisato, allunga mano e microfono per intonare all’unisono Tammurriata nera, resa lancinante da un recitativo che rivendica il diritto di migrare, amare, contaminare.

Urciuolo, raffinato cesellatore di timbri barocchi e swing jazzati, asseconda i balzi dell’attore: passa da un’appoggiatura di Scarlatti a un ostinato blues, stacca una rumba e subito rientra in un passacaglia, lasciando che la melodia diventi pista di decollo per le stravaganze vocali di Barra. Non è semplice accompagnamento: è un colloquio, talvolta una sfida. Sulla tastiera affiora l’eco dei clavicembali seicenteschi che De Simone innestava nei suoi oratori profani; sul registro basso scivola un vamp che ammicca al cabaret di Viviani; poi un cluster di accordi aperti spalanca lo spazio per la poesia di Basile, dove Peppe snocciola la lingua fiabesca dell’Lo cunto de li cunti come fosse slang di periferia.

La serata è insieme confessione, lezione di storia orale e festa pagana. Barra ricorda la prima volta al cinema con Pasolini − un provino saltato perché, dice, «non avevo la faccia abbastanza disperata» − e intanto cita Renato Zero, che gli suggerì di non rinunciare mai al lucore di certi abiti di scena «color pomodoro ramato». Narra di quando Eduardo gli proibì di mettere Pulcinella in La Gatta Cenerentola, temendo l’ira dei puristi, e di come proprio quell’azzardo sancì il trionfo di Spoleto. Ogni aneddoto reca con sé una risata incontenibile, ma dentro vibra la malinconia di chi ha visto consumarsi, sul palmo delle mani, un patrimonio di dialetti e rituali. Eppure il racconto non indulge alla nostalgia: a guidarlo è la «fede pagana nella resurrezione del suono», la convinzione che il teatro esista finché qualcuno, in platea, è disposto a riconoscersi nell’urlo sguaiato di un venditore di frutta o nel bisbiglio di una ninna nanna partigiana.

“Le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo”: così la critica ha definito il modo in cui Peppe Barra passa dal falsetto di femminiello seicentesco al ruggito di scugnizzo, dalla preghiera laica di un canto sefardita alla sfrontatezza di un motto carnascialesco. Alla GAM di Palermo questo caleidoscopio sonoro troverà una cornice che fiorisce di notte: il chiostro, illuminato a lume caldo, restituirà all’eco delle arcate il contrappunto ideale perché il Maestro possa lanciare, con il volto al cielo, l’augurio che da sempre apre le sue serate: Buonasera a tutti. Non è saluto di circostanza, ma promessa collettiva: quella di un viaggio che, per un’ora e mezza, concederà al pubblico il privilegio di abitare un teatro che sa ancora farsi rito, gioco, confessione, esorcismo.

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